Industria 4.0: l'evoluzione obbligata

Sin da bambini ci hanno insegnato che nel corso della storia si sono susseguiti via via dei “macro-periodi” che hanno per sempre rivoluzionato le epoche a venire, apportando il cosiddetto “breakthrough” come direbbero i Queen: la macchina a vapore, i nuovi trasporti, fino ad arrivare alla rivoluzione informatica, la vera protagonista della nostra epoca. Da qualche mese rimbalza nella rete l’abbreviazione 4.0, identificativo che connota un nuovo approccio gestionale sia al ciclo produttivo e, in un’accezione più ampia, a tutto il concetto delle risorse umane ivi connesso. Ma questo 4.0 cosa va a denotare? Cerchiamo di fare chiarezza in questa dicotomia fatta di sigle e numeri. Il concetto di industria 4.0 rimanda a un approccio ex novo del lavoro che si sta via via diffondendo, e che prevede la digitalizzazione del settore manifatturiero e un massiccio ricorso ai big data, ottenendo ciò che i tecnocrati definiscono un adattamento “real-time”. Questo vero e proprio vento di cambiamento che si andrà via via diffondendo, permetterà da un lato di snellire il sistema produttivo, garantendo più flessibilità nel ciclo produttivo e abbattendo notevolmente i costi, e dall’altro permetterà alle imprese di prevedere i cambiamenti (punti di forza e di debolezza) del loro settore grazie alle analisi previsionali condotte tramite il cloud. A dar manforte a questa rivoluzione, definita da molti imminente, vi è una ricerca condotta da Markets&Markets, un celebre sito specializzato in previsioni di mercato, che sottolinea come entro il 2022 il valore dell’industria 4.0 ammonterà a circa 152,31 miliardidi dollari, con un tasso di crescita del 14,72 (crescita percentuale anno per anno). In Italia, secondo i dati di una ricerca di The European House Ambrosetti, il giro d’affari si ferma a 1,8 miliardi di euro nel 2016. Quali sono i motivi di questo “ritardo” nella corsa all’innovazione? Sicuramente è bene ricordare che il tessuto industriale italiano è formato da piccole realtà industriali, soprattutto piccole e medie imprese manifatturiere, entità poco ramificate e che investono poco nell’innovazione, optando per una gestione tradizionale.  A tal caso il “bel paese” ha un vero e proprio divario tecnologico con il resto dell’Europa: come riporta il Sole24Ore, “la Germania è considerata a oggi, uno dei paesi di avanguardia in un processo che vede coinvolti grossi gruppi industriali, poli universitari e startup agevolate a livello fiscale”. In Europa vengono concessi sempre più finanziamenti e agevolazioni fiscali verso quelle realtà industriali che decidono di trasformare  e aggiornare il loro ciclo produttivo, conformandolo secondo i modelli di connessione e integrazione digitale. E in Italia? Il piano nazionale industria punta a mobilitare circa 80-90 miliardi di euro nel settore ricerca e sviluppo, un giro d’affari esponenziale se paragonato ai finanziamenti concessi a strartup e imprese innovative, che nel 2016 erano di appena 200 milioni di euro. Ma non è tutto: investire in tecnologie e in macchine non è la chiave di volta. L’italia è uno dei paesi meno digitalizzati di tutta Europa: il ritardo da colmare non è solo riconducibile al tema delle infrastrutture e della banda larga, ma anche alla grave mancanza di figure tecniche specializzate, come Iot manager, esperti di cybersicurezza, analisti di business digitale tanto per citarne qualcuno. Tra opportunità e rischi, non sono venute meno le critiche; numerosi lavoratori hanno paura di essere sostituiti da processi sempre più automatizzati che lasceranno spazio ai robot, un fattore che non dovrà essere preso sotto gamba soprattutto nel primo semestre del 2018, come riporta il sito americano Gartner. Altri ancora nutrono dubbi circa la possibilità di dover aggiornare le loro competenze: i dati del Sole24ore riportano che circa il 40% dei lavoratori italiani dovrà tenersi al passo con la tecnologia, onde evitare di essere travolto da questo “tsunami” tecnologico. Tra posti di lavoro che si creano, figure professionali che scemano, opportunità e rischi incombenti, il digitale è una realtà con la quale dobbiamo fare i conti: può essere un grande amico o un grande nemico, tutto sta nel saperlo fare nostro e abbracciare tutto ciò che ne concerne. Ma questo è un po il tratto distintivo dei nostri tempi, la conseguenza di un mondo sempre più interconnesso e ultra-avanzato; entro il 2020 avremo il quadruplo dei dispositivi connessi alla rete, automobili che dialogono tra loro, banchi di dati impressionanti. Saper leggere e prevedere questo cambiamento sarà l’asso nella manica per le generazioni di giovani che oggi faticano a trovare lavoro, ma anche per i “new comers”, i veri nativi digitali dei nostri giorni. Ma a dispetto di questo mare magnum di osservazioni e delucidazioni la domanda è, l’industria del digitale può essere davvero l’elemento trainante per uscire dalla crisi?

 

 

 

 

 



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