Si sa, quando si è piccoli si cerca di divenire grandi; non se ne vede l’ora; specie quando sei una impresa. Se sei piccola devi subire le imposizioni della concorrenza, dei fornitori, delle banche, delle leggi,.. ma se sei grande tratti da posizione più forte con i fornitori, il sindacato, le banche, puoi costituire una lobby per influire sulla politica, con una minuscola parte del tuo bilancio puoi promuovere il tuo prodotto ed influenzare il consumatore, puoi comprare i migliori fiscalisti e mitigare i rigori del fisco,… al peggio iscrivi in bilancio i tuoi costi e li trasferisci in questo modo sulle docili spalle del risparmiatore che ha acquistato le tue azioni; cioè puoi far pagare ad altri i tuoi piccoli o grandi problemi; così è fisiologico che le piccole imprese cerchino di divenire grandi.
Però una economia di grandi aziende cioè di organizzazioni che possano traslare sui piccoli i propri costi ed inefficienze, le proprie tasse e le proprie ambizioni, in automatico, produce una politica che riduce la propria democrazia. È infatti ovvio che l’impresa di dimensioni maggiori ha la forza per influire sulla politica e sulla informazione pretendendo maggiore decisionismo (la abusata “governabilità”) e quindi meno democrazia. Meno democrazia e più governabilità che si impegni a rendere difficile l’accesso al mercato di nuovi concorrenti prevedendo per le piccole e nascenti aziende incombenze burocratiche inesplicabili; tutto ciò per garantire alle grandi la rendita di posizione che già detengono. Se poi la grande impresa è un azienda energetica si perviene alla possibilità di supplire lo stato nella esazione delle imposte e nel controllo dell’intero sistema; che dire poi del credito? O della finanza?
Ma non basta: le maggiori dimensioni espongono il sistema ad improvvisi possibili crolli; il dissesto o solo una passeggera febbre di una grande impresa è un dramma per molti lavoratori e per l’intero Pil di uno stato; senza nulla dire della scalabilità dell’impresa da parte di altre grandi gruppi esteri concorrenti -oppure semplicemente ostili- tendenti a creare mostri multinazionali.
Se poi, nonostante tutto quello che le grandi aziende hanno dalla loro parte, le cose dovessero andare malissimo si statuisce solennemente che sono troppo grandi per fallire e quindi i piccoli sono chiamati ex lege ad un sacrificio extra per salvarle.
Il diavolo fa le pentole ma gli mancano i coperchi; ed è vero sempre. La grande impresa come detto è strutturalmente fragile dipendendo la propria floridezza dalla propria forza contrattuale e non dalla propria efficienza tecnica; quindi ha bisogno sempre di “altri” soggetti (consumatori, lavoratori, fornitori) nei cui portafogli scaricare i propri problemi; soggetti che siano piccoli, docili, non organizzati; e se questi “altri” soggetti sono già stati spremuti da loro stessi o dallo stato, allora sono guai seri; la grande impresa deve andare all’estero a cercare altrove prati ancora vergini dove mietere messi intatte; si deve cioè cercare altrove i numerosi “altri” piccoli da spogliare. Cioè senza che i piccoli siano ricchi non c’è trippa per nessuno!
È, in estrema sintesi, quello che sta accadendo oggi non solo in Italia e che fa capire come anche la grande impresa nostrana ha bisogno di uno stato che non si limiti a mediare tra potentati (che quindi rimangono tali, autoreferenziali e sempre più nelle pesti pur essendo onnipotenti) ma che individui un percorso comune che salvi letteralmente il sistema, grandi inclusi. Serve che finalmente ci sia qualcuno in grado di individuare, pensare e realizzare l’interesse di tutti cioè della collettività in quanto tale, e non solo quello dei pochi che pesano di più. Cioè serve uno Stato tout court, quello che hanno inventato i Padri dell’Occidente; serve che si torni ad allora: il nostro recente progresso socio politico è stato un enorme passo indietro verso la tribalità delle economie oligopolistiche e feudali. Serve riscoprire la civiltà.
Fonte: CODICI: Serve riscoprire la civiltà
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